L’Inquisizione in Sardegna – Il caso Julia Carta

 


Bentornati navigatori oggi andremo a vedere un caso di inquisizione e caccia alle steghe avvenuto in Sardegna a inizio del 1600, la colpevole per quel tempo era una ragazza di nome Julia Carta nata a Mores in provincia di Sassari e di umili origini. A 25 anni Julia si sposò con un contadino, da qeull'uomo ebbe 7 figli ma solamente uno, Juan Antonio sopravvisse. 

Julia era donna come tante altre dedite alla famiglia, brava a cucire, cucinare quel poco che si aveva, ma possedeva doti più particolari: la nonna le aveva tramandato l'arte della conoscenza: indovina e guaritrice. Questa dote diventava sempr più forte grazie all'esperienza e alla condivisione con dei gitani che ogni tanto si soffermavano in paese. Julia mette a servizio la sua arte solo a fin di bene e mai  a scopo di lucro.

. Fu anche una “majalza” (strega in sardo logudorese), depositaria di conoscenze magiche tramandatele i particolare da tre personaggi a lei vicini mentre, da nubile, abitava ancora a Mores. Sua nonna materna, Juana Porcu, le aveva insegnato a preparare unguenti curativi. Da una certa Thomayna Sanna imparò a confezionare amuleti magici (sas pungas) e da una zingara della comunità gitana locale apprese le tecniche magiche diagnostiche, basate sull’osservazione delle fiamme. 

Eppure per ben due volte fu incriminata dalla Santa Inquisizione Spagnola per stregoneria: strega luterana e poi ancora recidiva per esercitare  le sue hechizerías anche dentro il carcere che l’aveva sottratta ed allontanata dalla propria comunità. Tre le sue accuse, appariva anche un omicidio nei confronti di una donna, che cercò di curarare e che comunque era destinata a morire perché ammalata di un male incurabile per l’epoca.

L’accusa partì da sua amica di Siligo, Barbara De Sogos che, presumibilmente durante la confessione, riferì al parroco del paese, Baltassar Serra Manca, delle attività magiche di Julia. In particolare riferì al prete, commissario del Santo Officio, che l’aveva sentita parlare dell’autoconfessione: i peccati non dovevano essere riferiti necessariamente al prete, ma si poteva essere assolti in completa autonomia. Julia sosteneva di aver imparato tale pratica dalla nonna materna, che consisteva nel “dire i peccati dentro un buco da ricoprire nel pavimento della chiesa davanti all’altare o in casa sotto il lenzuolo”. Durante l’Inquisizione Spagnola, “offendere” un sacramento come quello della confessione, era considerato un reato gravissimo.

 A differenza di molte altre donne, pare che Julia Carta si sia salvata dal rogo. Dopo il 1614, di lei si perdono le tracce e non possiamo (almeno per ora) conoscere il suo destino. Il fatto che non compaia il suo nome nei registri dei “giustiziati” ci fa pensare che abbia scampato la pena capitale. Il tribunale,  specialmente nel secondo processo ritenne che l'arte di Julia era cosa comune in molte donne sarde dell'epoca, quindi non si poteva  processare tutto un villaggio.

Il Processo

Ma passiamo ai due processi per capire meglio di cosa fu incriminata e quale fu la pena inflitta. La prima volta di fronte a un tribunale a Sassari fu nel 1596, Julia aveva 35 anni. Oltre alla corte fu il popolino stesso a volere Julia sotto processo, quegli stessi individui la quale si era prodigata a curare la febbre e dare dei consigli per il futuro. A Sassari , le vennero fatte le tre moniciones di rito, che consigliavano l'imputata a raccontare tutta la verità. Le confessioni avvennero soltanto sotto tortura: sottoposta al tormento della corda, disse di essere rea delle accuse conferite e avere avuto rapporti carnali con il diavolo, di aver operato anche durante il suo soggiorno in cella, ma anche di aver subito molti soprusi. E rivelò di aver ereditato i suoi saperi dalla nonna, da una zingara e da una certa Tommasina Sanna. Un’eredità che poteva essere tramandata solamente di donna in donna.


Poi confessò 


Per la qual cosa sembra essere strega, superstiziosa, malefica e (si sospetta) la presenza del demonio (…) parimenti, la accuso e le imputo come colpa il fatto che un’altra volta consigliò e diede a una certa persona un fazzoletto pieno di ossa di morto (un panisuelo lleno de uessos de muertos). affinchè, recatosi a casa del governatore di Sassari, le mettesse sulla porta dalla quale il detto governatore usciva, in modo che costui fosse impossibilitato a far del male a una certa persona (…)parimenti la accuso e le imputo come colpa che, essendo una certa persona inferma e si sospettava che lo fosse a causa di qualche maleficio che le aveva fatto, una certa persona le consigliò di recarsi a casa di Julia Carta, che si intendeva di queste cose e che le avrebbe dato un rimedio.

Il 6 ottobre, l’inquisitore Pedro de Axpe emise la sentenza dichiarandola eretica e, dieci giorni dopo, Julia fece pubblica abiura nella Chiesa di Santa Caterina (attuale Piazza Azuni) a Sassari. Durante l’autodafè, portava il sambenito, l’abito della vergogna fatto di panno giallo recante la croce di Sant’Andrea. Era un monito, un simbolo di umiliazione pubblica che gettava disonore sul condannato e su tutta la sua famiglia. Julia scampó al rogo, ma fu condannata a portare il tale abito per 3 anni più a una serie di obblighi di carattere religioso.

La cosa notevole è la trasformazione strategica della protagonista. Si assiste a uno sdoppiamento di Julia che, in una fase iniziale, nega ogni accusa, ma che poi decide di lasciar andare alcune confessioni per rafforzare la sua posizione.

Il secondo processo e la scomparsa

Dopo una pausa di 7 anni, nel 1604 iniziò un secondo processo che durò sino al 1606 con l’accusa di essere recidiva. Confessó nuovamente e gli inquisitori la dichiararono eretica formale, idolatra del demonio e apostata della fede. La condanna proposta fu il rogo, ma riuscì a scongiurare tale pena anche stavolta. Il suo nome comparirà in un altro documento del 1614, e dopodiché di lei si perde ogni traccia, alimentando quell’alone di mistero che la circondava.


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