S'Accabadora: la Donna che finiva il Moribondo
Quel sottile filo che c'è tra la vita e la morte: in un tempo neanche troppo lontano in Sardegna o in alcune zone dell'isola c'era una enigmatica figura chiamata S'Accabadora. Ne abbiamo una tangibile testimonianza in Gallura nel Museo etnografico “Galluras” del piccolo centro di Luras, 8 chilometri da Tempio. All'interno del Museo è possibile ammirare degli incredibili oggetti, tra cui un rustico martello di legno d’olivastro
Un martello non come tutti gli altri: lungo circa 30 centimetri, con una circonferenza di 45. Il manico, corto e robusto, consente una presa sicura per assestare un colpo pesante e deciso. Questo arnese veniva utlizzato da li fèmini agabbadóri (sas accabadoras in lingua sarda settentrionale), le donne, cioè, incaricate di “finire” (in spagnolo acabar) un moribondo che pativa le pene dell'inferno, senza però riuscire a morire.
Nel 1832, l’abate Vittorio Angius scrisse che questo vocabolo dal verbo accabare, vorrebbe dire propriamente “uccidere'' percuotendo la coppa”, e figuratamente ‘trarre a capo’ o ‘condurre a fine qualche bisogna’. Un operazione che veneva fatta da una donna anziana del paese, la quale con quel martello aveva il compito porre fine l’agonia del moribondo.
Il sacerdote disse di aver udito di una ragazza moribonda ricevere la visita della Accabadora. Va pur detto che questa pratica potrebbe essere una sorta di eutanasia, di gran lunga differente dall'uccisione di vecchi magari ancora sani o di donne infedeli.
Lo scrittore Fresi nel suo libro ''Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende della Sardegna'', in un capitolo inerente alla Accabadora racconta di una intervista fatta a un vecchio centenario negli anni 70. A quanto pare l'uomo conobbe di persona la figura della Accabadora, descrivendola come una donna forte e decisa.
Ella interveniva
soltanto quando il malato era ridotto allo stremo. A questo punto
bastava la semplice pressione di un cuscino sul viso o un solo colpo di
mazzólu (il martello).
Quando la famiglia vedeva che il loro parente dopo giorni
di sofferenza non riusciva a morire costruivano un giogo, uno
strumento per l'attaco dei bovini in miniatura e lo
deponevano sotto il cuscino del malato, lo lasciavano tre giorni e
tre notti. Un rito di grande importanza che simboleggiava il lavoro di
campagna. Se all'alba del terzo giorno il malato non mostrava segni di
miglioramento ma neppure di peggioramento. Si iniziava con l’ammentu,
che era venuta l’ora di pentirsi di
tutti i peccati, anche di quelli dimenticati.
Poi si avvolgeva
il moribondo in un lenzuolo zuppo di acqua fredda o dentro una botte da
vino adattata alla bisogna. La reazione tra l’acqua gelida e il calore
del corpo molto spesso febbricitante avrebbe liberato il malato dalla
possessione del male o garantito una broncopolmonite fulminante che
avrebbe messo fine ad ogni tormento. La seconda ipotesi era la più
frequente.
Se nel caso che il pover uomo continuasse a
trascinare la sua vita, allora no rimaneva che chiamare la fèmina
agabbadóri. Ogni paese ne aveva una che arriva di notte entrava in casa
dalla porta principale dicendo: “Déu ci sia” (“Che Dio
sia qui”). Accompagnata nella stanza del moribondo, chiudeva la porta e
chiamava i parenti solo dopo che il malato fosse morto, morte che arrivava
all'istante con un colpo di quel martello nel collo.
Il filologo Alessandrino Zenodoto avrebbe narrato di una colonia di Cartaginesi arrivati in Sardone (Sardegna), i quali erano soliti sacrificare le persone ultrasettantenni. La folla e i parenti non mostravano nessuna lacrima, poiché per i Cartaginesi sarebbe stato un segno di sacrilegio. Da questa usanza pare che derivi l'espressione riso sardonico: il riso amaro dei vinti. La stessa storia ci viene raccontata dallo storico greco Timeo, per le persone vecchie e sofferenti.
Ma
c'è un aspetto ancora più macabro, se già questo non lo fosse stato: le
ragazze che rimanevano incinte fuori dal matrimonio venivano gettate in
un burrone nel bosco di Mammuscòne. Elle ignare del loro destino, andavano felici perché credevano di dover partecipare ad una festa.
Di
questi sacrifici umani o riti tribali sarebbe poi nata la accabadoras,
donne che hanno operato in Sardegna fino agli inzi del secolo scorso,
come scriveva l'abate Angius.
Di questi riti tribali sarebbero rimaste usanze come quelle delle accabadoras, o (in gallurese) fèmini agabbadóri, ultime parche di una civiltà decomposta e anche del suo rovescio.
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